Gezi Park, da maggio a settembre

16 settembre 2013

 

In principio era un albero. Anzi, erano seicento alberi. Quelli di Gezi Park. Un parco che offre panchine, fili d’erba e canti di uccelli creando un’isola felice nel frastuono di piazza Taksim, con i suoi palazzi altissimi e il traffico del centro. Un giorno,  quegli alberi sono diventati una foresta,  poi la foresta si trasformata  in una nazione, e la nazione è diventata un pianeta.

Una mattina di fine maggio, uno sparuto gruppo di persone si è accampato nel parco per difenderlo dalle ruspe, pronte alla demolizione degli alberi  per fare spazio a un mall e un centro culturale. C’è chi dice che nelle intenzioni ci fosse anche la costruzione di una moschea.

Quelle persone  sono state brutalmente assalite dalla polizia. Ma hanno chiamato rinforzi. Hanno diffuso la loro richiesta  di aiuto su twitter, su facebook, sui telefonini. E la rete ha risposto.

Non erano più soltanto una decina di ecologisti in difesa di quel verde così fragile, in una Istanbul che si mangia tutti gli spazi verdi  coprendoli con il cemento in cui si annusa l’odore dei soldi di costruzioni sempre più invasive ma assai redditizie.

All’appello son corsi in tanti. Tanti, e diversi fra loro. Hanno occupato Gezi e hanno anche occupato  la loro mente con un sogno di libertà. C’erano, e ci sono ancora, ecologisti, attivisti, kemalisti, operai, studenti, attivisti di anonymous, semplici cittadini stanchi delle arroganze di Erdoğan che negli ultimi anni hanno preso una oramai evidente piega autoritaria e personalista.

C’erano, e ci sono, perfino gruppi di curdi, e di musulmani “anticapitalisti”, così lì hanno definiti. Musulmani che non vedono nell’Islam del premier lo stesso Islam che parla di povertà, sobrietà, oculatezza nell’approccio al denaro. Musulmani che seguono Allah ma non credono nelle scelte capitaliste di Erdoğan.

Hanno dormito nelle tende, si sono scambiati il cibo. Tra la fine di maggio e i primi di giugno è iniziata così una resistenza che avrebbe cambiato il paese, portandolo in direzioni nuove che ancora oggi stanno cercando una forma.

Io ero lì, per caso. Mi trovavo,  come tante altre volte, nella mia amata città. Era il due giugno. Ma solo allora, solo quando sono arrivata, ho capito che stava accadendo. La protesta era diventata sommossa, la polizia aveva reagito caricando, usando gas lacrimogeni, bastoni, idranti. Migliaia di feriti, di arresti. 

Mentre l’Europa si spaventava, a Istanbul mi accorgevo subito di come tutto fosse concentrato a Piazza Taksim e nella zona di Beşiktaş, dove si trovano alcuni uffici governativi. Intorno, il resto della città viveva, e attendeva. Attendeva che il disordine passasse. E invece, era soltanto l’inizio. Perché quando la violenza della polizia dilaga, quando ci sono di mezzo i morti, quando la gente viene portata via senza ragione, quando viene impedito perfino di parlare, allora nasce, dentro, una forza che dilaga e rompe ogni argine. Una forza che si chiama rabbia, e speranza. E che si raduna sotto l’ala magica della solidarietà. “Solidarietà, un qualcosa che fino a questo momento non avevamo mai conosciuto in modo così significativo”, mi racconta Ali mentre, seduti davanti a una birra a pochi passi da Istiklal, dove si issano barricate contro la polizia, cerca di raccontarmi gli eventi degli ultimi giorni. Lui è un giornalista, sa bene cosa sta succedendo. Nel suo sguardo brilla la speranza. È stanco, spettinato, non dorme da due notti. I suoi occhi sono due cerchi spenti solcati dall’insonnia. Ma è fiero, orgoglioso di partecipare. Entrambi guardiamo le persone che ci passano accanto: ragazzi e ragazze con le mascherine antigas, quelle che li fanno somigliare ai dottori degli ospedali.

Altri, i più combattivi, usano invece le maschere professionali, e girano come tanti Darth  Vader, muniti di elmetti e sacche con medicinali. Passano veloci, e dalla loro velocità si intuisce la presenza della polizia. In lontananza, verso la piazza, vedo nubi di gas. “Non finirà qui, resisteremo”, mi dice Ali. Diren Taksim. Diren Gezi. Diventeranno frasi comuni, slogan di resistenza, nomi di gruppi su facebook e twitter. Ora quei nomi hanno volti e corpi che camminano, fuggono, sfidano la polizia. Il giorno dopo decido di arrivare fino al parco. È il 3  giugno. La polizia non sta attaccando, gli scontri sono concentrati a Beşiktaş. La piazza è gremita di gente. Mi colpisce la presenza di bambini, anziani, donne.  Sulle facciate dei palazzi sventolano le immagini di Atatatürk, Deniz Gezmiş e Che Guevara. Simboli dl lotta, coraggio, resistenza. Simboli un po’ diversi tra loro, a dire il vero. Ma nelle giornate di Gezi  Park sono tante le anime che si radunano e si battono insieme per uno scopo comune. Gli alberi sono solo la scintilla che ha appiccato l’incendio che ora divampa nel cuore delle persone. Ci si batte per la democrazia, per l’espressione democratica, per dire no alle politiche di costruzione selvaggia che rischiano di rendere Istanbul un gigantesco luna park  affaristico in cui sono solo gli affari di alcuni, ovviamente, a beneficiarne mentre gli altri restano indietro, come sempre, come in tutti i capitalismi. Ma siamo in un momento cruciale, nel mondo. I capitalismi egoisti, indifferenti, sono costretti, ovunque, a fare i conti con le ribellioni.

Qui la rivolta si colora di Islam, naturalmente. Ma bisogna fare attenzione perché non è l’Islam a essere contestato ma l’uso che ne fa il premier. È questo Islam conservatore e allo stesso tempo capitalista, difficile da radicare nella laica Turchia, figlia devota di Atatürk. Difficile specialmente se si ricorre alla forza. I giorni di Taksim e Gezi Park si ripetono  nei mesi di giugno e di luglio tutti uguali e tutti terribili: non appena un gruppo si riunisce per protestare, ecco che arriva la polizia e lancia tonnellate di gas lacrimogeno. Lo fa in pieno centro, di sabato, colpendo donne, bambini, ignari passanti. Mi sono trovata a scappare, travolta da una folla terrorizzata, mentre Istiklal si trasformava in un deserto spettrale, una specie di Avalon dalle cui nebbie sorgevano, invece di maghi e regni fatati, i blindati bianchi della polizia, pronti a colpire di nuovo.

Mentre fuggivo e mi riparavo nel negozio di turno capivo le parole di Ali, quando mi raccontava della solidarietà. Questa follia ti unisce, ti lega agli altri con un filo in cui basta uno sguardo a incollare un’intesa che va oltre le differenze di pensiero, di razza, di età. Ma il gas è subdolo, il gas penetra ovunque, e anche all’interno dei negozi ti senti male, gli occhi cominciano a gettar fuori lacrime di fuoco, i polmoni sembrano buchi colmi di veleno che non riesci a smaltire. Ricordo lo sguardo perso, e terrorizzato, di una donna giapponese, una turista, probabilmente, accasciata sul divanetto del ristorante in cui ci eravamo riparati. Vomitava, tossiva, apriva la bocca come un pesce preso all’amo alla ricerca di un respiro impossibile. In un ristorante, sfuggendo a un ennesimo attacco, un bambino e sua madre venivano soccorsi da un attivista che spruzzava nei loro occhi una sostanza calmante.

 

 

Il parco era stato sgomberato solo pochi giorni prima. La notte prima dello sgombero, anche io ero stata lì. C’era Görkem, la mia amica artista, e c’era Doğa, che traduce libri dall’inglese al turco ma che a me, quella sera, traduceva tutte le scritte, gli slogan, le  canzoni.

Çapulcular, vandali, li ha chiamati Erdoğan. Ma gli attivisti, da subito, si sono appropriati di quella parola e l’hanno fatta loro, l’hanno trasformata in un fatto identitario, le hanno datto  un nuovo significato, non più spregiativo ma  orgoglioso segno di appartenenza. Appartenenza alla lotta per la libertà e la democrazia. Nei profili facebook il termine çapulcu è comparso  fra il nome e il cognome dei “ribelli”, le danze all’insegna di “i chapull every day” , fioccate su youtube, sono subito diventate un cult fra i manifestanti. .

Sono spiritosi e divertenti, i  çapulcular Un altro dei loro simboli è il pinguino, perché quando la polizia attaccava la folla, i primi giorni della rivolta, la televisione mandava in onda un rassicurante cartone animato sui pinguini. Ecco allora i disegni di truppe di pinguini che combattono la polizia comparire sui muri o sui cartelloni delle proteste. Vero è che  i silenzi dei media sono stati molto pesanti, nei giorni degli scontri più violenti.  Un connivente, e colpevole, tacere.

“Her yer taksim her yer direnis!” : Taksim è ovunque, la resistenza è ovunque. Gli alberi sono diventati una foresta, dicevamo, e quella foresta un pianeta: la forza e il coraggio dei turchi affascina e commuove milioni di giovani ovunque, da Londra a Brasilia, da New York a Parigi. il web connette tutti velocemente.

Nell’erba, quella sera nel parco, prima che fosse sgomberato, c’era aria di festa. Tutti stesi, accampati, a difendere quegli alberi che erano diventati il simbolo di un’idea. In giro, molti volti coperti con la maschera di Anonymous, come nelle manifestazioni di tutto il pianeta. I “no” erano, e sono molti. No alla globalizzazione coatta, no all’islamizzazione forzata del paese, no alla costruzione indiscriminata, no alla limitazione della libertà di stampa e di espressione dei cittadini.

Da quel momento, ogni no sarebbe diventato un “diren”, “resistenza”.  Così, quando il filoso islamico Omer Tugrul Inancer, quest’estate, ha detto  che è sconveniente per le donne incinte mostrarsi in giro per la strada, ecco che subito nasce su twitter il relativo hashtag  di “resistenza”e nascono le manifestazioni.. Sicuramente la violenza con cui è stato sgomberato il parco ha radunato nuove collere, arrivate come nuvole nere in un cielo già pieno di pioggia. I blindati sono entrati nel parco senza pietà, distruggendo tende, ferendo persone.. . La piazza e il parco sono diventati uno scenario apocalittico, da “giorno dopo”.  Ma non ho visto bastoni, né sassi. Solo se arriva la polizia lo scenario cambia e si trasforma in  sangue, aggressione, violenza. Quando Gezi era “occupato”  tutti avevano a cuore la pulizia del parco: si cantava, si ballava, si passava la notte saltellando tutti insieme al canto di “Chi non salta Erdoğan è, è!”, si distribuiva cibo. E si beveva, anche, certo. Per alcuni, una maniera di opporsi alle recenti restrizioni sulla vendita di alcolici imposte dal premier. Ma qualche ingenuo giornalista occidentale l’ha chiamata “la rivoluzione della birra”. Qui si combatteva, e si combatte, per un’idea di libertà, non per ubriacarsi la sera, in una specie di auspicato Oktober Fest di stampo turco.

Il mattino, tutto era ripulito, messo via nei sacchi dell’immondizia. Non una cartaccia, non una bottiglia in giro.

Poi, il parco è stato sgomberato. Con assalti a dir poco feroci. Ma loro non se ne sono andati. Non se ne andranno mai. La rivolta si è spostata sulla piazza, e a Istikal, che per due mesi hanno visto manifestanti e polizia scontrarsi più volte.

Davide contro Golia. Ma Davide è furbo, è agile, e in Turchia ha anche senso dell’umorismo. Ho visto ragazzi e ragazze sfidare la polizia con un fiore, un libro, o un cartello con la scritta: “Biber gazi cildi güzellestiris”  “Il gas al peperoncino ti  fa bella la pelle”.  E ho visto le madri scendere in piazza quando Erdoğan le ha invitate a richiamare a casa i loro figli.

Per tutta risposta, sono arrivate anche loro. A danzare, urlare, marciare, e tirare qualche sassolino con una fionda quando i Toma, i blindati, avanzano per sparare acqua urticante, e di nuovo gas.

 

 

Chi ha conosciuto l’esasperata reazione della polizia non li dimentica, quei giorni. Non a caso un altro dei simboli della protesta è la famosa immagine della “donna vestita di rosso” che resiste, in piedi, all’assalto del poliziotto che le scarica addosso un idrante al peperoncino  con una forza tale da sollevarle vestito e capelli.

I feriti sono stati migliaia, gli arrestati anche (e ancora oggi qualcuno non è stato ancora rilasciato), le perlustrazioni nelle case a caccia dei “terroristi” hanno messo sottosopra intere abitazioni. Le proteste sono dilagate in altre città della Turchia, piccole e grandi.

E ci sono stati i morti. Ethem Sarısülük, Ali Ismail Korkmaz, Abdullah Cömert,

Mehmet Ayvalıtaş,Mustafa Sarı. Fra loro, anche un poliziotto.

La storia di Ali Ismail Korkmaz è particolarmente drammatica: aveva solo diciannove anni, Ali, ed è stato attaccato durante una protesta a Eskişheir (le manifestazioni si sono ovviamente diffuse in tutto il paese): è morto dopo giorni di agonia. Picchiato selvaggiamente da persone in abiti civili che non sono mai state arrestate.

Il suo è uno dei nomi che i ragazzi a Istanbul pronunciano ad alta voce nei bar, negli autobus, alzandosi dalle sedie e leggendo la storia del suo assassinio. In coro, tutti insieme, davanti a una popolazione che tace, scuote la testa, abbassa timidamente gli occhi o annuisce in un gesto di dolorosa solidarietà.

Se la stampa riporta poche notizie in un paese in cui la libertà di espressione dei giornalisti è sicuramente limitatissima, i giovani attivisti trovano nuove strategie, come questa, per parlare alla popolazione, informarla.

C’è molto romanticismo, in alcuni dei loro gesti. Sicuramente, c’è la voglia di combattere per un mondo migliore.

 

Per più di due mesi, i çapulcular non hanno mai indietreggiato. Sempre danzando la solita danza. La polizia attacca non appena vede qualche raduno, loro scappano, si nascondono nelle numerose vie laterali che come un dedalo circondano Istiklal, ma non appena il gas si dissolve ritornano. Cantano, sfidano, marciano.

Un rituale, quasi, che termina all’alba. Ci si difende innalzando barricate con oggetti trovati in giro sedie, lamiere, tavoli, sassi…

Molti di loro coprono la bocca con un semplice foulard. L’aria è irrespirabile. Dopo il passaggio dei blindati che scaricano acqua mescolata a jenix, una sostanza irritante, la sensazione è molto simile a quella provocata dal gas: gli occhi lacrimano, i polmoni bruciano.

I raduni però proseguono, e trovano nuove, fantasiose forme, come quella inaugurata dallo “standing man”, “duran adam”, in turco. Il primo è stato Erdem Gunduz. È rimasto lì per ore, in piazza Taksim, in piedi, in silenzio. Accanto a lui, uno zaino con una bottiglietta e dei biscotti. Com’erano ridicole, le forze dell’ordine, impotenti di fronte  a una resistenza fantasiosa ma mai violenta. Altri duran adam, per giorni, hanno gremito la piazza. E, di nuovo, il mondo si è commosso.

Il mese di agosto è passato in maniera più calma: gli studenti sono tornati nelle loro città, le squadre di calcio hanno interrotto le partite. Ma a settembre, nuovi scontri e repressioni che mettono anche la tranquilla Kadıkoy al centro delle rivolte portano una nuova ondata di violenza da parte della polizia. Finché un giorno, nella città di Hatay, il giovane Ahmet Akan muore, a soli ventidue anni, colpito in testa dal lancio di un candelotto di gas lacrimogeno a distanza ravvicinata. Muore mentre protestava per commemorare Abdullah Cömert, ucciso dalla polizia a Giugno, all’inizio della protesta. La nuova scintilla è il campus ODTÜ in Ankara, in cui è previsto l’abbattimento di alberi per costruire una strada. Muore e la polizia si discolpa imputando l’evento alla caduta da una palazzina. Ma nessuno ci crede, nemmeno io. Mentre noi, in Italia, seguiamo gli eterni processi di Berlusconi, gli eterni ricatti della nostra politica, a Istanbul si lotta di nuovo. Ma i media non danno spazio, i riflettori sono puntati altrove. Eppure, eppure bisogna parlarne. Perché siamo solo all’inizio. Perché  loro, i çapulcu, sono  solo all’inizio. “Tayyp winter is coming”, recitano alcune scritte, in inglese, sui muri della città.

E, possiamo scommetterci, sarà un inverno decisamente bollente.