Istanbul: i bambini curdi di Suleymaniye

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Malgrado la povertà evidente si respira un'atmosfera di pace. I bambini mi fanno cenno, invitandomi a fotografarli. Avvolti nelle sciarpe, si dispongono sui gradini e puntano lo sguard verso un orizzonte che sembra infilato in uno spazio privo di tempo, gli occhi duri, affilati come coltelli, la bocca seria che si inghiotte il sorriso del'infanzia, trasformato in una linea perfetta, una geometria di voci adulte e remote.

Sembrano statue di sale, mescolate al bianco che continua a cadere. Non stanno posando, non stanno facendo "le facce da fotigrafo" di Wim Wenders nel suo Cielo sopra Berlino: nella loro immobilità sono spontanei, racocntano se stessi, la voglia di crescere, lo spazio fragile fra il mondo infantile e quello dei grandi, che a un certo punto si assottiglia come una porta corrosa da un tempo precoce su cui è passata, malgrado la giovane età, una moltitudine di inverni freddi e di arsure estive.

Sono in cerca della loro storia, quella che scriveranno da grandi. Eccoli, piccoli adulti imbacuccati nei vestiti colorati,afascinati alla macchina fotografica, esattamente come io sono affascinata da loro. Gliela consegno per lasciarli giocare ancora un po', e di nuovo il sorriso di bimbo si allunga finoa gli estremi de mondo mentre ci raduniamo in gruppetti per fotografarci a vicenda. Alcune donne si fermano, sorridono. "Kurdish", dicono indicando i bambini e loro stesse. Curdi, l'unica parola che riesco a capire.

Cudi. Un suono senza terra. Il suono di un popolo privato del diritto all'indipendenza, una ferita sparsa nelle geografie che appartengono ad altri

Mi vengono in mente alcuni versi che Hikmet, il poeta che amo da sempre, dedica a suo figlio Mehmet: "Non vivere su qyesta terra/ come fossi un inquilino/ oppure in villeggiatura/ nella natura/ vivi in questo mondo/ come se fosse la casa di tuo padre / crei al grano al mare alla terra / ma soprattutto all'uomo. / Ama la nuvola la macchina il libro / ma innanzitutto ama l'uomo. / Senti la tristezza / del ramo che si secca / del pianeta che si spegne / dell'animale infermo / ma soprattutto senti la tristezza dell'uomo".

Alcuni sono condannati, invece, a vivere per sempre come inquilini. Sono coloro ai quali la terra  è stata negata. E forse è questo che riassumono i loro piccoli sguardi adulti, serissimi:la gioia di credere ancora al mare e alla terra sentendo però tutta la tristeza dell'uomo.

Ma la loro è una malinconia fugace, sottile come un fiato sul vetro. Conoscono il sapore dei momenti piccoli che sembrano schegge di sogni rimasti sulla soglia del giorno. la vita, qui, si accontenta di poco. E quel poco la riempie, le basta, diventa continenza che chiama la serenità.