Le vittime di Gezi Park. Berkin Elvan

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“Mamma, non preoccuparti, esco io a prendere il pane. Riesco a correre meglio di te, eviterò i poliziotti e i gas lacrimogeni”.  Prima di scomparire dietro la porta, i grandi occhi scuri del piccolo Berkin , occhi enormi, spalancati su quel faccino da quattordicenne incerto tra l’infanzia e l’età adulta, hanno guardato sua madre per l’ultima volta. Non l’avrebbe vista mai più. Non sarebbe mai più tornato a casa, Berkin. 

Era il 16 giugno 2013, e gli scontri di Gezi Park erano di nuovo all’apice. Anche quel giorno,nel quartiere di Okmeydanı, la polizia attaccava i manifestanti.

Ma non era un manifestante, lui. Era solo un ragazzino, uscito a prendere un pezzo di pane per la sua famiglia. È stato colpito alla testa da un candelotto di gas lacrimogeno  lanciato a distanza ravvicinata. Da quel momento, è entrato in coma e non ha aperto gli occhi mai più.

L’ultima cosa che ha visto, nella sua piccola vita spezzata, è stata quella folla, quel giorno. Uomini, donne, ragazzi che resistevano, combattevano, mentre la polizia infieriva con la solita violenza.  Frammenti di un mondo adulto che non avrebbe raggiunto mai, che sarebbe rimasto per sempre un mistero. Non diventerà grande, Berkin. Dopo 269 giorni di coma, è morto. 

“Abbiamo perso nostro figlio Berkin Elvan alle 7.00 del mattino”. Il messaggio dei genitori di Berkin ha fatto rapidamente il giro dei social, quegli stessi social che Erdoğan minaccia di chiudere e che invece rappresentano il ponte, il collante, il tam tam di tutti i cittadini indignati che dal maggio scorso si informano, si scambiano messaggi, organizzano proteste. 

È l’ottava vittima di Gezi Park. E non è una vittima qualunque. È il simbolo dell’innocenza, è il piccolo agnello sacrificale, condannato, in qualche modo, per i mali di un mondo che non gli appartiene, in cui non ha ancora fatto un ingresso compiuto.

Sembra ancora un bambino, nelle foto che lo ritraggono e che stanno facendo, ancora una volta, il giro del mondo.

Berkin che va a scuola, Berkin che gioca, Berkin che sorride, Berkin con il cappellino da baseball. Berkin uguale a tutti i ragazzini del mondo. Berkin che non sarà mai grande.

I negozi, a Istanbul, mettono davanti alla porta uno sfilatino di pane, simbolo, anche questo, della sua innocenza. Berkin è morto per un pezzo di pane. È morto per fare un favore alla mamma. Ecco che esplode, di nuovo, la memoria dell’assurda follia dei giorni di Gezi Park.

Questa rabbia scuote la Turchia in un momento già difficile, critico, a pochi passi dalle elezioni amministrative in una Istanbul arrabbiata che non molla, non dimentica, non perdona. 

Quel ragazzino è nella mente e nel cuore di tutti, lo è stato sempre, in questi 269, lunghissimi giorni di attesa in cui Berkin è rimasto sospeso tra la vita e la morte. Poi, la sospensione è terminata ed è arrivata la morte. 

Era il 5 gennaio quando ha compiuto 15 anni, li ha compiuti così, in un letto di ospedale, con una torta preparata dalla mamma. L’ultima torta, per  l’ultimo compleanno. Fuori dall’ospedale, palloncini e auguri scritti dai tanti cittadini che non hanno mai dimenticato quel piccoletto finito per caso nel posto sbagliato il giorno sbagliato.

Quante volte deve aver rivissuto quel momento, sua madre. Il momento in cui lui decide di andare al posto suo, decide di uscire per comprare quel pane che non mangerà mai. 

Quante volte deve aver desiderato morire al posto del figlio perché una madre sceglie sempre, se può, di andarsene lei. Ma non siamo noi a decidere, purtroppo. Così Berkin è morto, e lei invece è viva. E ha intenzione di trovare i colpevoli. Ma ce n’è uno che li riassume tutti, per lei.

 

“Non è Allah ad aver preso mio figlio, ma è Tayyip Erdoğan”, dice.  Impossibile non pensare agli encomi rivolti dal premier, quei giorni, alla polizia e al suo “eroico” lavoro malgrado le vittime, i feriti, la repressione brutale. 

#BerkinElvanÖlümsüzdür , Berkin Elvan è immortale. L’hashtag si popola velocemente di memorie, ricordi, espressioni di rabbia. Manifestazioni, scontri, marce e proteste ovunque. 

Questo nuovo, ennesimo morto pesa moltissimo sulla Turchia. Pesa molto di più dei 16 kilogrammi raggiunti, in una sola settimana,  dal corpicino del piccolo Berkin, precipitato dai suoi 45 kilogrammi a quel peso di piccola piuma in un logoramento crescente che ha sfinito la sua forza vitale e si è mangiato via la sua vita. 

Un film famoso, e bellissimo, diceva che 21 grammi sono il peso che si perde esalando l’ultimo respiro. Il peso dell’anima, forse. 

Una metafora che, nel giorno malinconico e struggente della morte di Berkin, fa pensare invece al piombo di un governo pesantissimo, che pesa ogni giorno di più, macchiato da corruzione, intolleranze, decisioni arbitrarie e coperture.

I 16 kilogrammi di Berkin, con la loro apparente leggerezza, in realtà pesano molto e oggi fanno precipitare  la bilancia della giustizia tutta dalla sua parte; sull’altro piatto, Erdoğan, la polizia, uno stato corrotto e sempre più dispotico.

Che oggi fa i conti con un lutto nazionale che sta scatenando e scatenerà nuove proteste. I cittadini sono già scesi in piazza, ovunque, nelle città turche. 

La polizia reagisce come al solito, la situazione è tesissima. L’onda della morte di Berkin sale, sale fino dalle prime ore della notizia ed è destinata a crescere. 

Il destino è beffardo. Dopo moltissimi mesi il piccolo Berkin se ne va proprio alla vigilia di queste elezioni. E la sua scomparsa lascia una traccia pesantissima in giorni delicati, incrinati dagli scandali, resi fragili dall’evidenza di crimini e coperture. 

Povero Erdoğan, sembra quasi una di quelle tragedie shakespeariane in cui il tragico destino si compie nel momento in cui ci si illude di averlo scansato.

Poteva aspettare, Berkin. E invece se ne è andato in un giorno di marzo, un giorno che si allunga, in tutta la Turchia, in mezzo alle proteste, attendendo la sera, e poi notte che vedrà  in piazza nuovi scontri, nuova violenza, e una nuova resistenza. 

Già fuori dall’ospedale la polizia è ricorsa all’uso spropositato di gas. Raduni nelle università, nelle strade, nei quartieri. La gente si raggruppa ovunque. E la violenza della polizia, in questo momento, è ancora più detestata. 

Già, perché i colpevoli di questo omicidio sono stati protetti. I responsabili sono ancora al loro posto. Troppe persone, in Turchia, sono ancora al loro posto. Nella polizia, nelle istituzioni.

Oggi il responsabile della morte di Berkin è, per tutti, il governo.

Questi mesi ci sono state diverse manifestazioni per ricordare il piccolo Berkin in coma. Manifestazioni puntualmente represse dalla polizia. Si sperava, si pregava, si attendeva. Ora, non c’è più nulla da attendere.

È il momento del lutto, ma anche della rabbia. Una rabbia che divampa sui social e approda rapidamente nelle strade.  La giovane, acerba anima di Berkin è volata via ma ha lasciato un segno preciso.

Il suo testimone è stato raccolto dai cittadini, e  adesso cammina sulle gambe di uomini, donne e ragazze che stanno marciando in protesta, in tutta la Turchia, per raccontare tutta la loro voglia di giustizia in un paese in cui si muore così, per un piccolo pezzo di pane destinato a una colazione mai fatta, un paese in cui una polizia assassina colpisce e scompare dietro i poteri, un paese che tenta di imbavagliare le libere voci della resistenza in nome di una morale che diserta per prima ogni parvenza di moralità, un paese che usa il nome di Allah per poteri personali che finiscono nelle solite logiche politico-imprenditoriali. 

Un paese che, ora, deve fare i conti con questo ennesimo morto sulla coscienza. Un morto che si somma alle altre vittime di Gezi Park. 

I 16, miseri kilogrammi di Berkin sono diventati all’improvviso pesanti come  macigni. Perché un’anima può pesare poco mentre vola via, ma la sua memoria, qui sulla terra, riesce a tracciare solchi indelebili. Difficili, veramente difficili da cancellare.

 

Articolo pubblicato su Osservatorio Iraq