A Istanbul, da Galata a Taksim. Soprese dietro il vecchio tram.

istanbul tram7 gennaio 2014

 

C'è un vecchio tram, che collega Galata e Taksim, dal sapore retrò. Racconta di tempi passati e di antiche suggestioni. In mezzo alla folla di Istiklal Caddesi, si fa annunciare con il suo suono particolare che si staglia sopra il vociare di turchi e turisti, un brusio costante, che nasce al mattino e muore soltanto all'alba, quando gli ultimi estimatori della movida notturna rientrano a casa insieme ai pensieri (spesso alcolici) sul giorno nascente.

Questo suono particolare, che sa di momenti remoti, appoggiati in qualche angolo di un tempo trascorso troppo velocemente, annuncia il vecchio tram rosso.

Al suo interno, fatto tutto di legno, c'è chi preferisce sedersi comodamente piuttosto che attraversare a piedi la distanza fra Galata e Taksim.

Molti turisti, al suo arrivo, si fermano di lato al tram e scattano fotografie. Ma l'aspetto più interessante del vecchio tram si rivela soltanto...dietro. Aspettate il suo passaggio, e poi guardate proprio lì, dietro.

Nella parte posteriore, gruppetti di scugnizzi turchi, così simili, per birberia e simpatia, ai ragazzini napoletani, approfittano del passaggio gratis attaccandosi alla portiera oppure installandosi, in modo spesso acrobatico, nello spazio sopra le ruote.

E da lì ridono, scherzano, ammiccano.

Per chi ama la fotografia e ne apprezza la scrittura di luce, capace di cogliere narrazioni fugaci che scompaiono in pochi secondi, è un'occasione meravigliosa.

Si ha a disposizione pochissimo tempo, ma, se si riesce, di catturano momenti quasi perfetti.

Momenti che raccontano di un quotidiano che mescola antico e moderno, con un pizzico di ironia.

Alcuni ragazzini posano per i turisti più accorti, quelli che si accorgono della loro presenza e tirano fuori in tempo la macchinetta.

Ma, spesso, si rubano attimi inconsapevoli, portati via al tempo e consegnati alla fissità della memoria.

Quante volte, all'inizio, ho visto davanti a me lo scatto perfetto, quello che attendi sempre, come un surfista in cerca della sua onda. Ma è passato in fretta, troppo in fretta.

Poi ho imparato a girare con la mia vecchia analogica sempre a portata di mano, indossata al collo (detesto questo segno di riconoscimento dello "straniero", che ti qualifica immediatamente come "turista", ma è l'unico modo per essere pronti quando, davanti, compare la tua foto, quella che cerchi, quella che ti tracconta molto più di mille parole.

Tra l'altro, l'analogica permette di fotorafare molto rapidamente, oltre a conservare felicemente le suggestioni che nessuna digitale potrà riprodurre, con il nitore tagliente dei sui pixel, con i suoi trucchi vintage che allontanano il profumo di verità dallo scatto.

Ecco perché amo le vecchie pellicole. E i vecchi laboratori di foto usate che si trovano a Sirkeci.

Così come amo, ogni volta che capito a Istikal, scoprire chi si è appostato dietro il vecchio tram.

E  provare a catturarne un dettaglio.

 

Istanbul. Capodanno a Taksim? No grazie.

2 gennaio 2014

 

capodanno istanbulE’ così bella, Istanbul, di notte.

Mentre osservo le luci, vicine e lontane, la pioggerella che batte si trasforma quasi in una carezza. “Neanche la pioggia ha così piccole mani”, scriveva E.E.Cummings. Di sicuro, questa sera, le mani che mi scivolano sulla testa e sul viso sono delicate, leggere, prudenti. In lontananza, la sponda europea. Davanti a me, il Bosforo, imponente, sontuoso, scuro come la notte che mi gira intorno, quasi a cercare il riparo da tutte le luci che  si moltiplicano all’infinito. E’ la notte di Capodanno.  Respiro l’aria che trasporta il sale del mare mentre le ore avanzano e Kadiköy saluta un altro anno che se ne va, magari a bordo di uno dei traghetti che collegano le sponde della città. Da Kadiköy sto per andare a Taksim, nella Istanbul europea. Mi piace, l’idea di un Capodanno passato in mezzo ai mondi. Ma non mi piace lasciare la casa di Denise, dove ho cenato fra regali, sorrisi, manicaretti turchi e tanta, tantissima umanità. Se si ha la fortuna di avere degli amici, qui a Istanbul, l’ultimo dell’anno diventa un’occasione preziosa per gustare l’intenso, speziato cuore dei turchi. Se poi hai amici italo-turchi, e questi amici hanno radici che vanno dall’Anatolia alla Puglia, allora la combinazione diventa felicemente esplosiva. Al molo, ho penso alle tavolate festose che raccontano la calda accoglienza dei turchi, che circonda il cibo con affetti, sorrisi, empatia. E una rara, scintillante semplicità. Hanno il sapore buono del cibo di un tempo, questi raduni. Non sono contaminati dall’individualismo moderno, sono rimasti piacevolmente  fedeli alla dimensione affettiva  della comunità. Come nel nostro Sud. A casa di Denise, dalla sua famiglia, sono stata accolta come una di loro. Ho mangiato, sorriso, scherzato. E, purtroppo, ho fatto anche una figuraccia. Non sapevo che i turchi usano scambiarsi fra loro i regali il 31 dicembre. E così, io ero a mani vuote mentre ricevevo il mio regalo: un set di accessori per fare lì hamam. Lo sa, Denise, che sono fissata con gli hamam. Sa che ogni volta che vengo mi dondolo nel tempo immobile di questi luoghi capaci di regalare una fuga dalle ansie del mondo.

Non avevo nulla, io. Solo un dolce di cioccolato comprato da Mado, una catena locale. Ma la prossima volta porterò loro dei pensierini italiani. Mentre ricevevo il mio regalo, mi sono sentita parte di questa grande famiglia allargata. Già, allargata, perché a casa di Denise, oltre a suo marito, suo padre, e un’amica che vive da loro, ci sono tre cani e un esercito di gatti. Ognuno speciale, ognuno con il suo carattere, con le sue abitudini. Mentre guardo il Bosforo ripenso a  tutti i felini che affollano la casa di Denise e di suo marito Semih. Ce n’è uno sordo che, almeno nella notte di Capodanno, diventa un privilegiato: botti e festeggiamenti non sono un problema. Se ne stava lì, a tavola, immerso nel suo mondo senza rumori. In mezzo al silenzio delle sue orecchie, però, spuntano  due occhi, di diverso colore,  che quando ti guardano ti bucano il cuore. Sono loro, questi occhi,  a “sentire”.

Me ne stavo lì, a ridere, brindare, discutere. Perfino la politica ha trovato un buchetto in cui infilarsi anche in quel giorno. Ma è bello confrontarsi con le idee diverse dalle tue, è  l’unico modo per non restare chiusi nel recinto stretto di convinzioni che hanno comunque bisogno di  un contrappeso, di un’altra campana. I monologhi rimangono confinati nelle certezze sterili di chi teme l’insinuarsi del dubbio. Quel dubbio che, alla fine, è uno dei nostri maestri migliori.

Perché si cresce nel dialogo, si matura nel confronto aperto, serrato. E si torna a casa con un pezzettino di ricchezza in più.

Ma è Capodanno e dopo un po’ la politica ha lasciato finalmente che a parlare fossero la pasta, i meze, i polli, le cipolline caramellate, le patate al tonno, le olive e tutte le prelibatezze cucinate da Denise e dalle sue amiche. E, come condimento su tutto, l'ironia fruttata di Alpay, che di nuovo mescola il Sud italiano alla Turchia generando deliziosi sapori supplementari.

Ridiamo, ridiamo tanto.

Mi commuovo quando Semih, con un brindisi, vuole ricordare la mamma di Alpay e Denise, che se ne è andata poco più di un anno fa. "Mi manca, mi manca davvero", dice Semih prima di cominciare a mangiare. E sento che lo dice dai profondi, segreti oceani del cuore.

Spesso le suocere sono poco amate. Sono considerate invadenti, fastidiose. Specie da noi, dove le mamme covano i loro pulcini tutta la vita, senza mai mollare la presa.

E invece a Semih manca davvero, questa donna che, a giudicare dalla luce della nostalgia che gli brilla negli occhi, doveva essere capace, con la sua presenza, di ravvivare ogni cosa.

Mi commuovo, sì. E cerco di non farlo vedere. E' questo il senso della famiglia, quello che unisce, con un legame invisibile, i presenti e gli assenti, risalendo i fiumi fino alle sorgenti dei nostri antenati.

Quando, dopo cena, osservo, in un angolo del salone, su un mobiletto, le foto in bianco e nero della famiglia di Alpay e Denise, penso che vorrò saperne di più, della storia di questa donna pugliese che per amore ha abbandonato il suo paese andandosene in terra turca. Una donna coraggiosa. Ci vuole coraggio, sempre, a cambiare. Ma la terra turca sa conquistare il tuo cuore, ti accoglie e ti abbraccia, se ti arrendi e ti lasci travolgere dalla sua festa dei sensi.

Così, a casa di Denise sembra di vivere la quintessenza dell'Italia bella, quella che sopravvive ancora nel ventre del Sud e di quella Turchia che vibra alle frequenze dei sentimenti profondi.

Mentre passeggio sulla riva del Bosforo ripenso a quella casa con nostalgia. Ho lasciato il suo tepore che ci avvolgeva tutti come un caldo mantello  per andare a piazza Taksim. “Non andarci”, mi avevano detto ripetutamente Denise e suo fratello Alpay. “Non è bello, a Piazza Taksim. Vedrai!”

Ma dovevo scrivere un articolo, per una rivista, sul Capodanno di Taksim.  A malincuore, sì, ma me ne sono andata per trascorrere lì  il periodo dopo la mezzanotte, fotografando, raccontando. Sul molo di Kadiköy coppiette in festa passeggiano senza meta, altri affrettano il passo, diretti,  probabilmente, a casa di amici. Ci sono luci, colori, odori. In aria osservo le lanterne volanti, che sollevano i desideri e li fanno transitare sulle ali del mondo, diretti lassù, dove qualcuno ascolterà, nei mondi invisibili, le nostre preghiere.  La loro magia attraversa la notte. Bellissimo, questo Capodanno.

Ma quando arrivo a Taksim l’atmosfera cambia radicalmente. Per me, è quasi uno shock.

 Mi aggiro per la piazza cercando di schivare le bottiglie rotte che fanno rumore sotto lo scalpiccio inquieto dei passi che solcano strade principali e secondarie. Intorno a me, una folla ululante, ubriaca, sguaiata. Nella notte di Capodanno, Taksim si trasforma e diventa il luogo d’incontro, e di scontro, di ragazzi sudaticci, dagli occhi liquidi, ebbri di alcol, pronti a molestare chiunque, specie una donna. Da Gezi Park fino a Istiklal un tappeto mobile, la cui trama è composta di carni, sudori e alcolici umori, forma una massa indistinta. Vicino a me,  un paio di ragazzi in preda all’euforia etilica  tentano, barcollando, di accendere una  lanterna che non vuole sollevarsi  da terra. Sono delicati, i desideri. Richiedono grazia e pudore, altrimenti non voleranno mai. E infatti restano  lì, sul suolo, inceppati come il cervello  sbronzo di chi prova inutilmente di sollevarli.

Intorno a me è tutto un vociare. Grida, gomitate, canzoni ubriache. Ma non è l’allegria sbarazzina di alcune urbiacature innocenti, gliardiche. C’è qualcosa di pesante, di greve. Ha a che fare con la violenza, con la bruttezza dell’umanità quando i suoi istinti peggiori hanno la meglio.

Alcuni hanno il volto coperto, indossano strane maschere bianche, spettrali. Sono le stesse maschere che ho visto addosso, recentemente, a quelli di Casa Pound durante una protesta, e non è un bel paragone. Una protesta. Sono stata qui, a Taksim e Istiklal, durante i giorni bollenti di Gezi Park. Ho passato la notte nel parco occupato, sono scappata dalla polizia che lanciava gas e cannoni ad acqua. Ma i manifestanti di Gezi sembrano usciti da un collegio oxfordiano rispetto all’umanità che affolla e sfianca questa notte. Non ho mai avuto, nei giorni di Gezi , lo stesso disagio e la stessa paura che avverto qui, adesso. Erdoğan si è sbagliato: sono questi, i veri çapulcular, i vandali che opprimono il quartiere con le loro insurrezioni. E’ in questo momento che sento tutta la bruttezza dell’umanità. C’è qualcosa di violento, volgare, in questa gente. Un fuoco basso, istintuale, che brucia ogni bellezza e la consuma. In questa massa però, alla fine, sono tutti soli. Avverto, con un brivido, la mancanza di ogni scambio reale e contatto: ognuno di loro è perso nel caos della sua testa, si è smarrito in un luogo nebbioso, senza sirene che segnalano la giusta rotta.

A Istkilal alcuni gruppetti si lanciano in danze tribali mentre le bottiglie rotte continuano a costeggiare la strada. Molti vomitano, senza neanche cercare un vicoletto nascosto.

Maganda”, li aveva definiti Denise. Cioè “cafoni, tamarri, burini”. Forse è stata troppo buona. Questi, ripeto, sono i veri çapulcular. Vandali che fanno rumore per nulla.

E’ stanotte, che questa zona mi fa davvero paura. Cerco con lo sguardo la polizia. Ma non vedo nessuno. Sono in borghese, i poliziotti. Sono travestiti da civili e sorvegliano la notte degli incivili. Ora capisco perché nessuno dei miei amici frequenta questi luoghi la notte di Capodanno. Sono tutti altrove.

E anche io me ne vado. Sfuggo ai passi allungati che mi inseguono, schivo gli sguardi lascivi, le volgarità.

Mentre sto per raggiungere Galata sbatto su una coppia di turisti con una bambina. Ma che ci fa, qui, una bambina? Non è un posto per ragazzini. E neanche per turisti. Certo, loro se ne stanno lì, con i loro cappellini da babbo natale e le trombette, cercando di amalgamarsi con quella folla. Ma il mio consiglio, se mai scriverò l’articolo per la rivista in questione, sarà quello di evitare Taksim a Capodanno. Se non si ha la fortuna di avere amici turchi da cui farsi invitare,  capaci di far vivere e brillare momenti di intensa umanità, allora è meglio andare nella parte asiatica, ad esempio, e passeggiare sul lungomare di Kadiköy. Oppure andare in altri luoghi della parte europea. Ma non qui, non a Taksim.

I turchi fanno tutto con il cuore. Sempre. Mettono avanti il cuore, e poi il cervello. Ma la notte di Capodanno, a Taksim, è sia senza cuore che senza cervello. Lasciamola a quelli che credono che lo sfogo di una notte sia sufficiente a colmare i vuoti scuciti nella negligenza dei giorni.

Gli altri stanno insieme fra loro, con la faccia in su, a guardare le lanterne nel cielo, o i fuochi d’artificio che accendono i ponti. Famiglie, amici, gruppi di ragazzini.

Alcuni gruppetti  sorridono mentre specchiano i loro sogni nelle acque del Corno d’Oro o del Bosforo. Di sicuro sorrido io mentre, in volo verso l’Italia, sento i discorsi di due napoletane che lamentano l’assenza di donne a Istanbul. “In che senso, scusate?”, domando loro. “Beh, a piazza Taksim non c’erano molte donne, la notte di Capodanno”.  Intanto, piazza Taksim non è tutta Istanbul. E poi, ci credo, che non c’erano molte donne. Rischiavano le molestie dei gruppetti che marciavano a braccetto, con le bottiglie sollevate in aria. Io c’ero, da sola. Ma, volentieri, mi ero allontanata al più presto. Per vedere le donne avrebbero dovuto passeggiare di giorno o di notte, in una qualunque notte dell’anno. Avrebbero visto la molteplice bellezza del femminile che anima questa città. Ma, il 31 dicembre, piazza Taksim appartiene solo ai maganda, come direbbe la mia amica Denise. Mutlu Yillar. Buon Anno.

 

Istanbul e la malinconia invernale

neveQuando si pensa a Istanbul, si immagina, di solito, il tramonto che incendia il Bosforo, sullo sfondo delle moschee. Non tutti sanno che, in realtà, d'inverno Istanbul è molto fredda, con il suo vento che soffia forte (e spazza via anche i pensieri) e la pioggia che cade abbondante. L'immaginario esotico di molti stranieri incontra dunque la realtà di una città in cui l'inverno si fa sentire, avvolgendo nel freddo i suoi abitanti. Tra dicembre e febbraio, inoltre, la neve copre volentieri il cielo che diventa di gesso.

Mi è capitato di girare più volte in una Istanbul stranamente silenziosa, leggera come i suoi fiocchi di neve, immersa nel bianco irreale che le dona i contorni sfumati di un sogno. Quella neve è diventa anche una bufera che punge gli occhi, pizzica le guance, ostacola il passaggio delle automobili imprimendo al traffico un'andatura lenta, leggera come piccoli passi d'uccello. La metropoli rallenta, il suo respiro si allunga sui palazzi, sulle moschee, sulla popolazione che si ripara sotto inutili e fragili ombrelli.

Com'è bella, Istanbul, in questi momenti. Rivela tutta la sua malinconia. Una malinconia dolcissima. Una tristezza lieve lieve, eppue persistente, come il profumo, nella memoria, di chi abbiamo amato.

Non invade, ma è sempre lì, pronta a farsi ascoltare dentro un sussurro.

Quando a Istanbul nevica la cosa migliore è girare, senza meta.

Le moschee sono così strane, immerse in quel bianco assoluto. Si avvicinano al cielo.

Il muezzin lancia il suo richiamo - che di solito associamo di solito al sole forte, ai colori speziati - che rimbalza di moschea in moschea e finisce nei flutti del Bosforo, il mare selvaggio che scorta i fianchi della città.

In questo bianco lo sguardo si perde, si infila nei vicoli, cammina e raggiunge il mare.

Sul Corno D'Oro, nei giorni di neve, perfino i pesci sembrano immobili.

Dolce, malinconica Istanbul.

Gli occhi si socchiudono gustando, all'interno di qualche locale, una tazza fumante di salep che profuma di buona cannella.

Fuori, è già sera.

 

Istanbul, a colpo d'occhio

17 dicembre 2013

grattacieli

Spesso, quando vado a Istanbul, le persone mi chiedono "Ma come ti trovi?", "Come si sta lì?".

Quasi dovessi andare in una cittadella popolata da un gente rozza e piuttosto arretrata. "Mamma li turchi", dice qualcuno, purtroppo senza scherzare.

Questo, però, è soltanto l'immaginario di alcuni italiani che nulla ha a che vedere con la realtà di una metropoli che viaggia alla stessa frequenza di Parigi, Londra, New York (Roma e Milano, non pervenute).

Fa parte di un certo humus culturale tipico del nostro paese, incapace, a volte, di uscire da un certo snobismo "provinciale" e di vedere che accade realmente fuori dal nostro paese. Paese che sta scivolando rapidamente verso condizioni terzomondiste, mentre altre realtà, come la Turchia, stanno crescendo rapidamente. Le ruote girano, e i paesi si trovano a vivere strane situazioni (basta pensare al flusso migratori di italiani verso il Marocco e il Brasile per capire i cambiamenti epocali in cui siamo immersi).

Ma torniamo a Istanbul, ancora impigliata, insieme alla Turchia, in una serie di pregiudizi tutti italiani.

Divertenti, a volte, se non lasciassero in bocca il sapore triste della miopia di vedute e pensieri.

L'anno scorso, svegliandomi in hotel durante il mio ennesimo viaggio, mi sono ritrovata addosso una fastidiosa congiuntivite.

Non si aprivano neppure, gli occhi. Incollatil letteralmente. Con una buona dose di fatica, ho finalmente afferrato l'ipad cercando di capire come trovare un oculista. Di ospedali internazionali ce ne sono diversi, a Istanbul. Lì è certamente più facile per chi, come me, non parla la lingua turca.

Così, indecisa fra quello americano e quello tedesco, ho optato per quello tedesco, certa forse di una "ferrea" risposta, efficace e precisa. Difatti, dopo solo mezz'ora ero già lì, con tanto di appuntamento, dottoressa turca e traduttore.

Ho pagato soltanto 80 lire turche, 40 euro, più o meno. Diagnosi, medicine ed educate raccomandazioni.

Sorrido, pensando al panico di certe persone quando mi immaginano in una Istanbul semideserta, quasi attraversata da unni a cavallo.

Nella modernissima Roma, in cui vivo, faticherei ad avere appuntamenti così precisi, in tempi così brevi, in ogni tipo di ospedale. Roma è una città che fa stagnare ogni energia, perfino quella più motivata, perfino quella figlia delle efficienze internazionali che approdano qui, nella capitale (e che rallentano, si avvitano, cominciano, anche loro, a girare in tono, come un criceto nella gabbia)

E penso a quanto tempo debba passare prima che alcuni pregiudizi si abbattano.

Nel frattempo, Istanbul cresce, la Turchia si rafforza. E l'Italia diminuisce.

 

Reportage: Ritorno a Gezi

29 novembre 2013


Esce oggi, per Osservatorio Iraq, il mio reportage: "Ritorno a Gezi "

i

 

La protesta, il racconto di alcuni protagonisti, gli abusi della polizia, le denunce di Amnesty. Cosa resta, oggi, di Gezi Park?

 

leggi il reportage:

Ritorno a Gezi