La vecchia cartolina di mio padre
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- Lunedì, 04 Novembre 2013
2 novembre 2013
Istanbul. Mi piaceva quel suono. A volte un amore comincia così, con un suono. Ero ancora una bambina quando vidi la cartolina che mio padre ci spedì dal suo viaggio in Turchia: cupole e minareti al tramonto, sullo sfondo di un cielo che incendiava lo sguardo in cui bruciava, fervida, la mia immaginazione.
Ogni tanto mi ritrovavo a pensare a quel magico nome. Istanbul. Ci sarei andata, un domani.
Ma il domani arrivò, e quel desiderio finì invece in qualche angolo dell’esistenza. Un giorno, molti anni dopo, Istanbul diventò finalmente la meta di un viaggio “in solitaria” per affrancarmi dai nodi che di solito, da adulti, ci trasciniamo dentro. Pesi che la vita ci ha costruito addosso, architetture edificate sulla nostra innocenza perduta.
Subito dopo i quaranta, poi, il futuro comincia a invertire il suo moto rispetto al passato: uno si accorcia e l’altro si allunga, mentre ti rendi conto che i ricordi finiscono sulla stessa linea immaginaria del sogno.
Un viaggio è il modo migliore per osservare da lontano le trame di cui è tessuta la nostra vita.
Ma se partiamo insieme agli amici, o al compagno, ci portiamo dietro un pezzo di casa che ci impedisce di misurarci con ciò che siamo diventati davvero. Il vero viaggiatore è sempre solo, me lo aveva insegnato Chatwin con le sue migrazioni inquiete, ribelli, stupite, sulle tracce che i grandi viaggiatori dell’Ottocento hanno lasciato nelle geografie di questo mondo.
Sì, sarei finalmente andata a Istanbul. E ci sarei andata da sola. Non era la prima volta che partivo senza compagni di viaggio.
Quel suono, Istanbul, si era depositato dentro di me fin dall’ infanzia. E io, ormai, me ne ero ricordata. Adesso batteva dentro di me come un cuore. Tum. Tum. Tum. Istanbul.
Ed è stato così che ho preso il mio primo aereo per la Turchia.
Il primo di tanti, dato che il mio incontro con questa città sarebbe diventato un appuntamento che avrei ripetuto più volte nel tempo.
Istanbul. Bisanzio. Costantinopoli. La Città delle città.
Prima della partenza non mi sono documentata sugli itinerari: in una città bisogna smarrirsi seguendo solo l’istinto.
Affidarmi a una cartina precotta, con le informazioni che altri hanno cucinato per noi, non rientra nei miei progetti di esplorazione.
Soltanto in aereo ho aperto a caso la guida che avevo portato con me. Così, tanto per orientarmi un po’. Il termine orientamento deriva da oriente, e la mia bussola stavolta puntava dritto a Est.
Non immaginavo, allora, che la mia sarebbe stata una storia d’amore. Non immaginavo di ritrovare, in una cultura completamente diversa, le mie stesse contraddizioni, le non appartenenze che hanno caratterizzato la mia esistenza vissuta all’incrocio di tutto, sempre attratta da opposte direzioni del sentimento. Istanbul non è solo un crocevia di tradizioni e culture, è anche una sfida continua ai nostri modi di pensare il mondo, di dividerlo in categorie.
Istanbul attira le anime complesse, attraversate da un vento simile a quello che soffia in questa frontiera fra i mondi. L’Oriente e l’ Occidente sono anche luoghi dentro di noi, rappresentano metafore audaci in cui la complessità del reale ci sfida, invitandoci a mettere in discussione le convinzioni nelle quali ci siamo rinchiusi.
Come sembriamo puerili, a volte, noi occidentali, con le nostre supponenze, le arroganze sulla libertà e l’individualismo. Penso alla parità estrema dei sessi che, alla fine, ha trasformato in maschi le femmine, e le femmine in maschi. Che dignità, invece, disegna i volti di alcune donne con la testa coperta dal velo e gli occhi che sono porte di cielo. A Istanbul camminano accanto alle femmine moderne, emancipate, che la sera si truccano, escono, indossano vestiti all’ultima moda e sorridono all’uomo piegando la testa all’indietro. I silenzi dei quartieri tradizionali mi incantano, mi seducono, è lì che mi sembra di afferrare Istanbul e tenerla accanto nel cuore. Ma poi lei scappa, fugge via, fugge a cercare le notti ebbre e scombussolate di Taksim dove si beve e si balla finché l’alba non spegne l’ultima stella. Nei suoi vicoli colorati di luci i ristoranti si succedono in fila ricordandomi quelli del quartiere latino, a Parigi.
Di notte, nel centro moderno, la vita brulica, ha fame di mondanità. Istanbul che non dorme mai, come New York. E in questa confusione cosmopolita mi sento a casa, mi trovo.
Preferisco però i languori degli hamam con la loro lentezza che scioglie il tempo. Le donne si lavano, si massaggiano fra loro in mezzo a confidenze femminili che nessun uomo saprà mai penetrare.
Istanbul abita il mistero. Si nasconde, svelandosi a poco a poco. E gira, gira come un derviscio scombussolando bussole e mappe.
Mi sento a casa, in questa frontiera appoggiata sul mare. Sul Corno d’Oro osservo il volo dei gabbiani che sfiorano l’acqua, madrina di ogni pezzo di terra che qui comincia e finisce. Rimane sempre segreto, il mare. E io, che in un posto di mare ci sono nata, so riconoscere il canto dell’acqua, so come suona. Qui la voce del muezzin si allunga e muore nei flutti per rinascere, salata e nuova, e cantare ancora. E arriva ovunque, trasportata dal vento. Nelle luci dei minareti Istanbul conserva la fiamma antica che arde accanto alla modernità insolente, sfrontata. Istanbul. Selvatica, indomita, sgangherata. Libera come i suoi giorni speziati, forte come i sapori del suo cibo servito con amore lento e paziente, come il kebap che gira sullo spiedo diffondendo nelle strade i suoi odori. A tavola la gente si guarda negli occhi e canta. Conosce ogni canzone suonata, la recita, la interpreta mettendosi le mani sul petto. E sorride, parla, gesticola. Se sei straniero cerca di fregarti, a volte, ma anche questo in fondo non mi dispiace perché se vedo l’ombra non ho mai paura che la luce sia finta.
Istanbul abbonda di case: case, case e ancora case, case ovunque dalle colline al mare, su e giù fra strade grandi e piccine. Mi ricorda un po' Napoli. Trasportata dal vento, la voce magica del muezzin diffonde ovunque il messaggio di Allah. Nelle moschee, scalza e profana, nascosta vicino alle donne mentre i miei ricci cercavano una via di fuga dal foulard troppo piccolo, mi sono immersa nelle sconosciute profondità della sua religione, rapita da una voce suadente.
L’ho sentita mia, Istanbul. Perché ho sentito la sua malinconia nascosta dietro i sorrisi, i colori, le danze. È la stessa malinconia di ogni anima che non si lascia addomesticare, che vive senza appartenere mai a nulla e a nessuno.
Il parere di Q Libri
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- Lunedì, 28 Ottobre 2013
la mia istanbul recensito e votato da Q Libri:
http://www.qlibri.it/narrativa-italiana/racconti-di-viaggio/la-mia-istanbul/
La mia Istanbul nelle Marche
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- Giovedì, 10 Ottobre 2013
6 ottobre 2013
Il 18 Ottobre a Senigallia (Ancona) presentiamo il libro insieme a Camillo Nardini. Se siete nei paraggi, passate a trovarci.
Gezi Park, da maggio a settembre
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- Mercoledì, 18 Settembre 2013
16 settembre 2013
In principio era un albero. Anzi, erano seicento alberi. Quelli di Gezi Park. Un parco che offre panchine, fili d’erba e canti di uccelli creando un’isola felice nel frastuono di piazza Taksim, con i suoi palazzi altissimi e il traffico del centro. Un giorno, quegli alberi sono diventati una foresta, poi la foresta si trasformata in una nazione, e la nazione è diventata un pianeta.
Una mattina di fine maggio, uno sparuto gruppo di persone si è accampato nel parco per difenderlo dalle ruspe, pronte alla demolizione degli alberi per fare spazio a un mall e un centro culturale. C’è chi dice che nelle intenzioni ci fosse anche la costruzione di una moschea.
Quelle persone sono state brutalmente assalite dalla polizia. Ma hanno chiamato rinforzi. Hanno diffuso la loro richiesta di aiuto su twitter, su facebook, sui telefonini. E la rete ha risposto.
Non erano più soltanto una decina di ecologisti in difesa di quel verde così fragile, in una Istanbul che si mangia tutti gli spazi verdi coprendoli con il cemento in cui si annusa l’odore dei soldi di costruzioni sempre più invasive ma assai redditizie.
All’appello son corsi in tanti. Tanti, e diversi fra loro. Hanno occupato Gezi e hanno anche occupato la loro mente con un sogno di libertà. C’erano, e ci sono ancora, ecologisti, attivisti, kemalisti, operai, studenti, attivisti di anonymous, semplici cittadini stanchi delle arroganze di Erdoğan che negli ultimi anni hanno preso una oramai evidente piega autoritaria e personalista.
C’erano, e ci sono, perfino gruppi di curdi, e di musulmani “anticapitalisti”, così lì hanno definiti. Musulmani che non vedono nell’Islam del premier lo stesso Islam che parla di povertà, sobrietà, oculatezza nell’approccio al denaro. Musulmani che seguono Allah ma non credono nelle scelte capitaliste di Erdoğan.
Hanno dormito nelle tende, si sono scambiati il cibo. Tra la fine di maggio e i primi di giugno è iniziata così una resistenza che avrebbe cambiato il paese, portandolo in direzioni nuove che ancora oggi stanno cercando una forma.
Io ero lì, per caso. Mi trovavo, come tante altre volte, nella mia amata città. Era il due giugno. Ma solo allora, solo quando sono arrivata, ho capito che stava accadendo. La protesta era diventata sommossa, la polizia aveva reagito caricando, usando gas lacrimogeni, bastoni, idranti. Migliaia di feriti, di arresti.
Mentre l’Europa si spaventava, a Istanbul mi accorgevo subito di come tutto fosse concentrato a Piazza Taksim e nella zona di Beşiktaş, dove si trovano alcuni uffici governativi. Intorno, il resto della città viveva, e attendeva. Attendeva che il disordine passasse. E invece, era soltanto l’inizio. Perché quando la violenza della polizia dilaga, quando ci sono di mezzo i morti, quando la gente viene portata via senza ragione, quando viene impedito perfino di parlare, allora nasce, dentro, una forza che dilaga e rompe ogni argine. Una forza che si chiama rabbia, e speranza. E che si raduna sotto l’ala magica della solidarietà. “Solidarietà, un qualcosa che fino a questo momento non avevamo mai conosciuto in modo così significativo”, mi racconta Ali mentre, seduti davanti a una birra a pochi passi da Istiklal, dove si issano barricate contro la polizia, cerca di raccontarmi gli eventi degli ultimi giorni. Lui è un giornalista, sa bene cosa sta succedendo. Nel suo sguardo brilla la speranza. È stanco, spettinato, non dorme da due notti. I suoi occhi sono due cerchi spenti solcati dall’insonnia. Ma è fiero, orgoglioso di partecipare. Entrambi guardiamo le persone che ci passano accanto: ragazzi e ragazze con le mascherine antigas, quelle che li fanno somigliare ai dottori degli ospedali.
Altri, i più combattivi, usano invece le maschere professionali, e girano come tanti Darth Vader, muniti di elmetti e sacche con medicinali. Passano veloci, e dalla loro velocità si intuisce la presenza della polizia. In lontananza, verso la piazza, vedo nubi di gas. “Non finirà qui, resisteremo”, mi dice Ali. Diren Taksim. Diren Gezi. Diventeranno frasi comuni, slogan di resistenza, nomi di gruppi su facebook e twitter. Ora quei nomi hanno volti e corpi che camminano, fuggono, sfidano la polizia. Il giorno dopo decido di arrivare fino al parco. È il 3 giugno. La polizia non sta attaccando, gli scontri sono concentrati a Beşiktaş. La piazza è gremita di gente. Mi colpisce la presenza di bambini, anziani, donne. Sulle facciate dei palazzi sventolano le immagini di Atatatürk, Deniz Gezmiş e Che Guevara. Simboli dl lotta, coraggio, resistenza. Simboli un po’ diversi tra loro, a dire il vero. Ma nelle giornate di Gezi Park sono tante le anime che si radunano e si battono insieme per uno scopo comune. Gli alberi sono solo la scintilla che ha appiccato l’incendio che ora divampa nel cuore delle persone. Ci si batte per la democrazia, per l’espressione democratica, per dire no alle politiche di costruzione selvaggia che rischiano di rendere Istanbul un gigantesco luna park affaristico in cui sono solo gli affari di alcuni, ovviamente, a beneficiarne mentre gli altri restano indietro, come sempre, come in tutti i capitalismi. Ma siamo in un momento cruciale, nel mondo. I capitalismi egoisti, indifferenti, sono costretti, ovunque, a fare i conti con le ribellioni.
Qui la rivolta si colora di Islam, naturalmente. Ma bisogna fare attenzione perché non è l’Islam a essere contestato ma l’uso che ne fa il premier. È questo Islam conservatore e allo stesso tempo capitalista, difficile da radicare nella laica Turchia, figlia devota di Atatürk. Difficile specialmente se si ricorre alla forza. I giorni di Taksim e Gezi Park si ripetono nei mesi di giugno e di luglio tutti uguali e tutti terribili: non appena un gruppo si riunisce per protestare, ecco che arriva la polizia e lancia tonnellate di gas lacrimogeno. Lo fa in pieno centro, di sabato, colpendo donne, bambini, ignari passanti. Mi sono trovata a scappare, travolta da una folla terrorizzata, mentre Istiklal si trasformava in un deserto spettrale, una specie di Avalon dalle cui nebbie sorgevano, invece di maghi e regni fatati, i blindati bianchi della polizia, pronti a colpire di nuovo.
Mentre fuggivo e mi riparavo nel negozio di turno capivo le parole di Ali, quando mi raccontava della solidarietà. Questa follia ti unisce, ti lega agli altri con un filo in cui basta uno sguardo a incollare un’intesa che va oltre le differenze di pensiero, di razza, di età. Ma il gas è subdolo, il gas penetra ovunque, e anche all’interno dei negozi ti senti male, gli occhi cominciano a gettar fuori lacrime di fuoco, i polmoni sembrano buchi colmi di veleno che non riesci a smaltire. Ricordo lo sguardo perso, e terrorizzato, di una donna giapponese, una turista, probabilmente, accasciata sul divanetto del ristorante in cui ci eravamo riparati. Vomitava, tossiva, apriva la bocca come un pesce preso all’amo alla ricerca di un respiro impossibile. In un ristorante, sfuggendo a un ennesimo attacco, un bambino e sua madre venivano soccorsi da un attivista che spruzzava nei loro occhi una sostanza calmante.
Istanbul, la rivolta dei colori
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- Martedì, 03 Settembre 2013
1 settembre 2013
Duecento gradini nel quartiere di Cihangir erano stati colorati. Tutti avevano pensato si trattasse degli attivisti, invece è stato il sessantaquattrenne Hüseyin Çelikel, un neoziante del luogo che ha semplicemente pensato che fossero più belli così.
E ha pensato bene. Purtroppo, però, la municipalità ha riportato gli scalini al loro grigiore quotidiano. Ma ecco che, di nuovo, scocca la scintilla e presto sia queste che altre scalinate, a Istanbul come ad Anakara E Diyarbakir, si accendono dei colori dell'arcobaleno. Domenica, a Istiklal, un gruppo i giovani ha dipinto su carta, per terra, nella giornata dedicata alla pace. Soffiano venti di guerra ma questi colori, un po' infantili, allegri, in cui i rosa danzano con i blu, i gialli e gli aranci, ricordano che si può sempre sperare.
A Istanbul come nel resto del mondo.
Le proteste di Istanbul, da duran adam, "the standing man", alle madri in piazza con i figli, hanno un accento romantico che non può non commuovere.
Ha il sapore buono delle ribellioni pacifiche, che contestano il potere trovando forme creative. E per questo ancora più "minacciose".
Perchè il potere odia la creatività, la fantasia. Detesta il sogno romantico. Perché sa che a volte può determinare...l'impossibile. Anche oggi. Adesso. Lì.