Istanbul e gli scrittori: Galata raccontata da De Amicis
Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d'essere in Oriente. Da tutet le parti si sente parlare francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un'aria un po' da padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano con il cannone alle minacce degli Imperatori. Ma della loro possenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l'antico edificio dove risiedeva il Podestà.
La Galata antica à quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono state rase al suolo per ar luogo a due lunghe strade: una delle quali rimonta la collina verso Pera, e l'altra corre parallela alla riva del mare da un'estemità all'altra di Galata.
Per questa c'inoltrammo il mio amico e io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombrano la strada a colpi di verga.
A ogni passo ci suonava all'orecchio un grido. Il facchino turco urlava: Sacun ba! (Largo!), il saccà armeno, portatore d'acqua, Varme su! l'acquaiolo greco: Crio nero! l'asinaio turco: Burada! il venditoredi dolci: Scerbet! il venditore di giornali :Neologos! il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati.
Istanbul e gli scrittori - Pierre Loti
"E poi, all'improvviso, come accostiamo a terra, ci arriva un odore penetrante, speciale, squisito ai miei sensi - un odore un tempo così noto e da tanto dimenticato, l'odre della terra turca, che viene dalle piante o dagli uomini, non so, ma che non è cambiato e che in un istante mi riporta tutto un mondo di sensazioni di un tempo.
Allora,bruscamente,si riproduce nella mia esistenza come un buco di cinque anni, uno sporfondare di tutto quanto è trascorso da quel giorno d'angoscia in cui ho lasciato Stamul, e mi ritrovo completamente in Turchia prima ancora di averci messo piede, come se una certa mia anima, che non se n'era mai andata, venisse a riprendere possesso del mio corpo errante e irresponsabile"
(Pierre Loti, Un odore così noto e a tanto dimenticato, 1876-1887)
Gezi Park: giustizia per la "ragazza in rosso (II)
Per Ceyda Sungur, la ragazza in rosso, giustizia è fatta. Sì, possiamo dirlo. E lo ripetiamo: giustizia è fatta.
Ceyda era stata accusata di provocazione e "incitamento alla rivolta", insieme ad altri cinque attivisti. Ma le accuse sono tutte cadute. Perchè in realtà stava preparando, insieme ad altri studenti universitari, un elenco dei feriti che, nel parco, avevano bisogno di assistenza.
Le foto che hanno fatto il giro del mondo hanno pesato come il piombo, e hanno inchiodato il poliziotto davanti alla sua responsabilità.
Anche se F.Z. dovesse essere condannato in modo più lieve rispetto alla richiesta della procura di Istanbul, questo fatto marca comunque un passaggio importante: la giustizia ha riconosciuto l'innocenza di Ceyda, mentre ha fermato il poliziotto davanti alle sue responsabilità. Lui no, non è innocente.
Certo, se i video e le foto non fossero stati così eloquenti, se non avessero fatto il giro del mondo, forse le cose sarebbero andate diversamente. Non lo sappiamo. Ma il poliziotto pagherà. Comunque vada, pagherà.
In un contesto, quello di Gezi, in cui centinaia di persone sono state fermate e trattenute, il proscioglimento dalle accuse, il riconoscimento dell'innocenza di Ceydar e dei suoi compagni, mostra uno spicchio della vera anima della resistenza.
Un'anima fatta di cittadini e cittadine qualunque, studenti, ragazzi. Che si sono radunati e si sono aiutati fra loro.
Come, quel giorno, ha fatto anche Ceyda, adoperandosi per far soccorrere i manifestanti feriti.
Oggi, Ceyda, l'icona femminile di Gezi, ha vinto comunque.
Istanbul, il "caldo" weekend di Piazza Taksim
“Internetime dokumna!”, “Don’t touch my internet!”. Questo lo slogan che ha chiamato a raccolta, sabato scorso a piazza Taksim, centinaia di manifestanti. E, stavolta, al centro della protesta non c’era un parco, ma internet.
La commissione parlamentare ha infatti approvato un progetto di legge con il quale il governo potrà esercitare un controllo fortissimo su tutta la rete.
La proposta, preparata dall’AKP (il partito di ispirazione islamica al governo), comporta, secondo le associazioni e i comitati cittadini in rivolta, il serio rischio di censura nei confronti dell’unico mezzo di informazione davvero libero che, non a caso, è stato lo strumento privilegiato di comunicazione e diffusione delle informazioni durante la rivolta di Gezi .
La scorsa estate, il Primo ministro Erdoğan aveva condannato l’uso dei social paragonando twitter alla “peggior minaccia di una società”. Ma è proprio grazie alle notizie, foto e video pubblicate sui social che gli attivisti turchi hanno scavalcato il bavaglio dei media portando l’attenzione su quanto stava accadendo.
La rete e le manifestazioni di Gezi Park sono collegate a doppio filo. Internet ha avuto un ruolo centrale nelle proteste. Lo sanno le opposizioni, lo sanno i manifestanti. E lo sa il governo.
Sabato scorso la gente, in piazza, si è quindi ribellata ad un rafforzamento del controllo sul web. Quel web che oggi, nelle società di tutto il mondo, è sintomo e simbolo, più di ogni cosa, della libera espressione di una democrazia, agevolata da una informazione in tempo reale capace di anticipare le notizie filtrate dei media tradizionali.
Dunque, un tema particolarmente scottante in una Turchia scossa, dopo i fatti di Gezi, dagli eventi che hanno visto protagonisti diversi esponenti del governo, travolti dallo scandalo che ha portato a un forzato rimpasto nell’esecutivo.
Se la proposta diventerà legge, al governo sarà possibile impedire l’accesso ad alcuni siti web senza passare per la magistratura.
Le aziende che ospitano i siti web dovranno inoltre aderire a un nuovo organismo, posto sotto la verifica diretta del ministero, che attraverso una banca dati potrà controllare, per due anni, le pagine visitate dagli utenti turchi.
Decisamente troppo, per un paese già in netta difficoltà nell’espressione libera delle divergenze. E così, il 18 gennaio, a Istanbul come in altre città, compresa la capitale Ankara, i cittadini si sono riuniti per manifestare.
Era dai tempi di Gezi che a piazza Taksim non si vedeva un raduno di simili proporzioni. In piazza sono scesi a migliaia.
Non sono mancate le solite scritte umoristiche che, come sempre, caratterizzano queste manifestazioni. Alcuni hanno mostrato cartelli che facevano il verso al premier ridicolizzando la sua pretesa di controllare la rete: “tayyp:// ”, recitavano.
Ma dietro gli scherzi c’era molta, moltissima tensione e timore. Youtube, il quinto sito per numero di visite nel paese, in passato è già stato bloccato più volte. L’hashtag dell’evento, #18Ocak18DeSokaklara, lanciato in rete, ha immediatamente raccolto moltissimi accessi e condivisioni mentre in piazza, la polizia, come al solito disperdeva la folla ricorrendo a un massiccio uso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua e proiettili di gomma.
Non sono mancati gli arresti, naturalmente.
E tuttavia quella folla radunata a Taksim non era violenta, ancora una volta era la popolazione civile: uomini, donne, ragazzi che hanno chiesto rispetto per la loro libertà, per il loro spazio privato, individuale.
Non credono alla scusa di un controllo maggiore sulla pedofilia, per tutelare i minori, credono invece che l’azione moralizzatrice di Erdoğan continui a usare l’Islam per rafforzare, in realtà, il potere del premier. Che in questo modo avrebbe una scusa “legale” per mettere a tacere voci scomode, dissidenti. Specialmente ora che si avvicinano le elezioni amministrative e nell’AKP la tensione sale dopo la scissione di Fetullah Gülen.
Di certo, nelle prossime settimane si tornerà a discutere di web e dei provvedimenti che, in un momento delicato come questo, somigliano davvero a una censura.
Il lungo weekend in piazza, intanto, è proseguito domenica 19 gennaio per ricordare l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink, ucciso sette anni fa davanti al palazzo del giornale che dirigeva, il settimanale Agos, da un nazionalista diciassettenne, Ogün Samast, condannato a più di ventidue anni di carcere.
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